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Avanti, canguri della musica

Tutti hanno ben presente, anche senza averla visitata, la Sydney Opera House: collocato nel punto più importante e visibile della città, su progetto dell'architetto danese Jørn Utzon, l'edificio con le vele è ormai un'icona della metropoli australiana e, probabilmente, uno tra i più celebri al mondo.

Gli edifici in realtà sono due, praticamente gemelli, l'uno di fianco all'altro: il primo è il Teatro Joan Sutherland, così chiamato in memoria della celebre prima donna australiana, l'altro è, per l'appunto, la Concert Hall di Sydney dove si esibisce, da quando la sala stessa è stata aperta (1973), la Sydney Symphony Orchestra. Abbiamo così sfatato un piccolo mito: quello che, agli occhi dei più, era semplicemente il teatro dell'opera, trattasi invece di un centro artistico plurifunzionale, fatto per ospitare l'eccellenza musicale di Sydney, lirica e sinfonica, ma anche spettacoli di teatro e danza (in ulteriori sale minori).

Lo scorso 29 agosto abbiamo avuto il piacere di ascoltare presso questo splendido gioiello di acustica, la Sydney Symphony per l'appunto, sotto la guida del suo direttore principale, David Robertson, in un programma dedicato al grande sinfonismo europeo del tardo Ottocento: Terza Sinfonia di Brahms, Symphonie espagnole del francese Lalo con Vedim Repin solista e Sinfonietta di Janacek per concludere.

Cominciamo con l'ammettere una mancanza: non avevo mai ascoltato questa orchestra, né dal vivo né in cd, tranne che in pochi estratti su Spotify, attirato dal loro integrale delle sinfonie mahleriane sotto la guida di Ashkenazy, registrazione live e autoprodotta non priva di una certa originalità perché tra le pochissime a presentare la nella versione integrale.

Mi aspettavo quindi di trovarmi di fronte ad una delle migliori orchestre al mondo, ma si trattava di una scommessa a freddo, fatta senza quel battesimo uditivo e autentica comprensione che solo l'ascolto dal vivo possono dare.

Ho scoperto così un'orchestra che, a pieno titolo, va accolta nell'olimpo della musica mondiale. Non mi è chiaro perché con i suoi quasi cento anni di storia nessuna importante casa discografica abbia deciso di investire in sue registrazioni: per scarsa conoscenza certamente, forse per mera pigrizia, o per le difficoltà materiali legate all'eventuale trasporto delnecessairetecnico dall'altro capo del mondo.

Eppure la compagine è di quelle che non temono confronti: può contare su un organico di oltre 100 elementi, archi compatti e potenti, fiati delicati e perfettamente intonati, mitici ottoni, imparentati, forse, con la grande scuola americana.

L'americano Robertson quindi, avendo a disposizione un materiale di simile qualità, è nelle condizioni di modellarlo secondo il suo gusto, dando un taglio personale ai brani in programma. Brahms è equilibrato, cristallino: un'esecuzione che mette in risalto i numerosissimi contrappunti interni, che fa emergere le diverse linee melodiche. Convince soprattutto l'ultimo tempo, dove Robertson ha il coraggio di sciogliere un po' l'animale che vive tra le righe del pentagramma, e l'orchestra può esplodere laddove serve.

Il secondo brano è una piacevole raccolta di quadretti melodici per violino e orchestra della Parigi bene di fine Ottocento: qui il padre-padrone è certamente Repin, anche perché tutto il pezzo, scritto per il mitico Pablo de Sarasate, costituisce e in primis una sfida virtuosistica per il solista. Repin è pienamente all'altezza delle aspettative: l'artista siberiano, che ha eseguito il pezzo in tutto il mondo, non manca una nota, suona dall'inizio alla fine con gusto e una passione che non è mai languore. La perfezione di alcune note lunghe, in pianissimo, eseguite senza far percepire neppure vagamente il cambio di arco, lasciano semplicemente di stucco. Anche qui l'orchestra accompagna con intelligenza, non in maniera pedissequa o accessoria. Robertson conduce Repin, assecondandolo non servilmente nei suoi tempi e nei suoi abbellimenti. L'incontro tra i due è emozionante.

Conclude il concerto la ciclopica (a dispetto del nome) Sinfonietta di Janacek. Questo brano ci fa toccare con mano la qualità della sezione dei fiati, legni e ottoni, della Sydney Symhony: l'intonazione è sempre perfetta, il suono è puro, ampio. In questo brano Robertson si lascia andare di più: la reverenza che forse avverte nei confronti di Brahms qui scompare e finalmente possiamo ascoltare l'orchestra in tutta la sua forza. Il finale, in particolare, è glorioso, magnifico.>

Nella mia esperienza, i due concetti di “direttore d'orchestra” e “USA” si incarnano imprescindibilmente nella figura del grande Leonard Bernstein, uno che coi grandi (Brahms, Beethoven, Mahler) si dava del tu, senza alcun timore reverenziale, cercando sempre nell'interpretazione di cogliere il cuore della musica, col rischio di compromettere a volte la nitidezza di taluni passaggi. Sorprende un po' quindi scoprire che David Robertson appartiene invece a tutt'altra scuola: precisione assoluta, chiarezza nei dettagli, massima attenzione alla concertazione.

Non esistono un approccio giusto e uno sbagliato alla musica. Esistono direttori che sanno far suonare le orchestre e altri che non riescono a tirarci fuori niente. Robertson è certamente della prima categoria, il suo pensiero musicale è chiaro e convincente, il gesto semplice e mai lezioso, degno di un autentico professionista della musica. Del resto, basta guardare, anche distrattamente, alla carriera di questo artista, per rendersi conto del livello nel quale si colloca: viene da domandarsi piuttosto come mai così raramente compaia nei cartelloni del nostro Paese. 

In sostanza: avanti canguri. Il mondo della musica è pronto ad accogliervi: avanti con le vostre stagioni che, senza paura, presentano una sera una sinfonia di Mahler e un'altra la colonna sonora di The Matrix. Portate la vostra professionalità ed il vostro entusiasmo: ce n'è davvero molto bisogno.

 

 

 

 

 

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