Leopardi e Pasolini, quando l'Arte non è di Parte

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La visione de Il giovane favoloso di Mario Martone è certamente un'esperienza estetica, per la bellezza della sceneggiatura, la bravura degli attori, la perfetta ricostruzione delle città italiane di metà ottocento; soprattutto, per la capacità di rendere il genio e l'importanza artistica, letteraria e filosofica di Giacomo Leopardi.

Vedendolo, viene voglia di rileggere La ginestra o il Dialogo della Natura e di un Islandese: dal film, insomma, emerge la grandezza di Leopardi, e non è cosa da poco. Non è facile, attraverso lo schermo, evitare le banalizzazioni: il rischio, sempre dietro l'angolo, è di ridurre gli artisti a fenomeni da baraccone, trasformare le loro vite in soap opera, perdere totalmente di vista la ragione per la quale un gracile omuncolo di Recanati, ad esempio, è diventato Leopardi e non è stato inghiottito dalla nebbia del tempo.

Questo film, uscito nelle sale poche settimane dopo il poetico Pasolini di Abel Ferrara, ci costringe in un certo senso a fare un parallelo tra i due, e questo confronto, sebbene per certi aspetti forzato, perché si tratta di persone vissute in epoche e società molto diverse tra loro, porta ad una somiglianza, come rilevato peraltro dallo stesso regista Mario Martone.

Sia Leopardi che Pasolini furono due intellettuali la cui statura travalicò gli anni in cui vissero e per questo non vennero compresi dai loro contemporanei. 

Leopardi era lontano dall'orizzonte ideale e culturale della sua famiglia d'origine, guardato con sospetto e paura dalla nobiltà conservatrice dell'epoca (nella quale rientrava, certamente, anche suo padre), ma allo stesso tempo estraneo anche al secol superbo e sciocco, all'ottimismo dominante dei liberali e degli intellettuali progressisti. Leopardi è pessimista, ma la sua negatività è sistemica e sembra antecedere il pensiero esistenzialista di alcuni grandi filosofi del XX secolo come Heidegger o Sartre. Se in Leopardi c'è semplice melanconia, questa compare nel primo periodo, in testi come l'Ultimo canto di Saffo, non certamente nella Ginestra. Il pessimismo, che da storico diventa cosmico, apre le porte al Decadentismo e al Novecento; si trattava di un pensiero troppo moderno per essere compreso dalla società italiana (ma anche europea) di inizio XIX secolo. 

Stessa sorte, di persona al di là delle parti e dei confini, conobbe Pier Paolo Pasolini. Uomo certamente non di destra, fu tuttavia cacciato da giovane anche dal partito comunista. Descriveva la società italiana nei suoi romanzi e nei suoi film per quello che era, con crudo e cinico realismo. Non era un intellettuale militante nel senso comune del termine: pur simpatizzando per i radicali, aveva l'onestà intellettuale di scrivere un memorabile articolo contro l'aborto che ancora oggi sciocca per la lucidità dell'analisi e la stringente logica delle argomentazioni. Pasolini era, non a caso, amico di Oriana Fallaci, criticava i comunisti europei, considerava falliti i regimi russi e cinesi (negli anni in cui in Italia e non solo spopolava il Libretto Rosso di Mao), aveva il coraggio di criticare i tanti pagliacci nullafacenti che schiamazzano nelle manifestazioni di ieri e di oggi e scriveva parole in difesa dei poliziotti, "figli dei poveri". Si comportava, in altre parole, in maniera opposta a quella che ci si sarebbe attesi dal tipico (e banalmente prevedibile) intellettuale comunista, o più genericamente "di sinistra", anni '70.

Leopardi fu un talento eclettico e multiforme: fu un filologo, un grecista, un poeta, un filosofo. Pasolini, dimostrando la stessa vastità di interessi, fu un romanziere, un poeta, un regista.

Viene da domandarsi se queste due figure, così scomode, così fuori dagli schemi, siano state rispettivamente i più importanti intellettuali italiani rispettivamente del XIX e del XX secolo. Molti grandi artisti sono stati intellettuali legati alle mode e agli schemi, e questo non necessariamente sminuisce l'importanza della loro opera. Ma forse, gli artisti più grandi li riconosci proprio da questa cifra opposta, ovvero dalla loro capacità di saper parlare alle generazioni future ancor prima che alla propria: di essere persone sopra le parti e, in un certo senso, sopra allo stesso Tempo.